nella nuova versione all’italiana:
MI STROZZO O NON MI STROZZO ?
“Cosche mie non vi conosco”
"L’onestà intellettuale che è in me mi fa dire che Benigni con la sua arcinota indecente filastrocca aveva proprio ragione.
“Se quella sera…….. “.
Lasciamo perdere, glisson, tanto la sapete tutti a memoria.
Ma, passando al serio, ho trovato un articolo che spiega in maniera precisa gli sviluppi relativi alla riapertura dei procedimenti penali, allora rubricati come “contro ignoti” e poi archiviati, riguardanti le stragi del 1993!1994.
Ve lo sottopongo, nella convinzione che potrà aiutare per comprendere e dipanare così, in ogni suo risvolto, questa aggrovigliata matassa.
COSA NOSTRA
LE QUATTRO INCHIESTE
29/11/2009
Le nuove verità all'esame dei pm.
di
FRANCESCO LA LICATA
Berlusconi, Dell’Utri e le stragi mafiose.
Attorno a questa storia, che va avanti da più di 10 anni sempre in assenza di risposte certe, ruota il tormentone prenatalizio sui media.
Avviso sì, avviso no.
Sono indagati, Berlusconi e Dell’Utri?
E, cosa abbastanza curiosa, il tormentone sembra essere divenuto onnipresente più sui giornali ad influenza berlusconiana che su quelli di opposta natura.
E’ diventato talmente ossessivo, il tormentone, da indurre il Procuratore di Firenze a intervenire pubblicamente per smentire i titoli e le prime pagine dei quotidiani vicini al premier, che davano per certo
«Berlusconi indagato».
Ma, smentita a parte che potrebbe essere dovuta e strategica al lavoro investigativo dei pubblici ministeri fiorentini, è davvero questo il problema dei problemi?
Solo una eccessiva banalizzazione
- alimentata da una informazione politica che ormai si insegue prevalentemente su gossip e incerte indiscrezioni contrabbandate per verità –
può ridurre una fase così importante delle inchieste sulle stragi mafiose ad un duello mediatico che raramente tiene conto dell’effettivo stato delle indagini, finalizzato com’è alla difesa o alla demonizzazione di Berlusconi.
Perdendo di vista il fatto che, per la prima volta, si presenta - forse - l’occasione di far chiarezza su un periodo davvero buio della vita della Repubblica.
Occasione più appetibile delle precedenti perché più verificabile sembra il racconto arrivato da nuovi testimoni.
Già, perché non è soltanto Gaspare Spatuzza - ex braccio destro dei capimafia di Brancaccio (Palermo) Giuseppe e Filippo Graviano –
il «collaboratore determinante».
Insieme con la sua affiorano testimonianze di pentiti nuovi e vecchi che hanno funzionato da riscontro.
Per non parlare dell’apporto di Massimo Ciancimino, il figlio dell’ex sindaco di Palermo, Vito, morto nel 2002 dopo una condanna per mafia.
Ma è meglio procedere con ordine.
Tutto inizia nella primavera del 2008, quando Gaspare Spatuzza sostiene alcuni colloqui investigativi col Procuratore Nazionale Antimafia, Pietro Grasso.
Il suo è uno sfogo che va in direzione soprattutto della «verità negata» in relazione alla strage di via D’Amelio (luglio 1992) che costò la vita al giudice Paolo Borsellino e alla sua scorta.
Dice Spatuzza, in sostanza, che la sentenza di Caltanissetta - sede del processo - è ingiusta perché il pentito Vincenzo Scarantino, cardine dell’accusa, ha detto bugie fino ad «accollarsi» una strage mai compiuta.
Scarantino si era accusato di aver procurato l’auto che poi sarebbe stata imbottita di esplosivo per l’attentato di via D’Amelio.
Spatuzza distrugge questa ricostruzione «semplicemente» dimostrando che la macchina l’ha rubata lui, su commissione dei capi del proprio «mandamento»:
i Graviano di Brancaccio.
Dichiarazioni forti che preludono ad una certissima revisione dei processi già chiusi pure in Cassazione.
A seguire comincia a parlare anche delle stragi del ‘93 (Roma, Milano e Firenze), introducendo significativi elementi di novità.
Nel giugno del 2008 le Procure di Caltanissetta, di Firenze (titolare per le stragi del ‘93), di Milano e di Palermo ricevono da Grasso i verbali, ognuno per le rispettive competenze, e partono le «indagini Spatuzza».
Poche critiche si levano nei confronti dell’ex boss, anche quando gli accertamenti sulla strage Borsellino approdano alle prime conferme e alla presa d’atto che, come sostenuto dal «collaborante»,
«ci sono colpevoli in libertà e innocenti in carcere».
Paradossalmente sono solo i magistrati a mostrare diffidenza verso Spatuzza, dal mondo della politica nessuna critica, nessuna accusa di «pentimento a orologeria». Il garantismo interessato tace.
Ma le indagini si sa da dove partono e non dove portano.
Così il «caso Spatuzza» si complica nell’estate di quest’anno quando il «collaborante» - ancora guardato con diffidenza dagli stessi magistrati - risponde alle domande dei giudici sui cosiddetti mandanti occulti delle stragi.
Le sue dichiarazioni mettono i pubblici ministeri in condizione di individuare un paio di personaggi - esecutori materiali - rimasti fuori dalla sentenza emessa dalla Corte d’Assise di Firenze.
Novità che, a sentire l’odierna smentita del Procuratore Quattrocchi, ha consentito di riaprire l’inchiesta modificando il fascicolo, non più contro ignoti.
Secondo il Procuratore, dunque, gli indagati noti non sarebbero Berlusconi e Dell’Utri, come titolato dai giornali dell’area di centrodestra, ma altri
«sospetti esecutori materiali».
Contemporaneamente cambia anche il «clima» attorno a Spatuzza, indicato dalla politica come «falso», «a orologeria», «ispirato dai PM».
Ovviamente la bagarre politica, sorta attorno alle «dichiarazioni alte» di Spatuzza, fa passare in secondo piano la ricerca di «verità» sulla strage Borsellino, che era il punto di partenza delle investigazioni.
Che ha detto Spatuzza?
Ha ripetuto, in sostanza, quello che da anni ha «concesso» nei numerosi colloqui investigativi intrattenuti coi giudici Vigna e Gabriele Chelazzi (morto di infarto nell’aprile del 2003): che la gestione delle stragi di Roma, Milano e Firenze era appannaggio dei Graviano, direttamente per conto di Totò Riina.
E che i referenti politici dei Graviano si trovavano a Milano ed erano Berlusconi e Dell’Utri, da cui sarebbe arrivati benefici per Cosa nostra, in quel momento stretta nella morsa della repressione.
Spatuzza sostiene di aver saputo da Graviano, in un incontro al Bar Doney, a Roma, il nome del politico amico:
«Era Berlusconi e c’era di mezzo un nostro compaesano, Dell’Utri...
Io non conoscevo Berlusconi e chiesi se era quello di Canale 5 e il Graviano mi disse di sì».
L’incontro, avvenuto a metà gennaio del 1994, sarebbe stato propedeutico al mega-attentato progettato allo stadio Olimpico di Roma, durante la partita Roma-Udinese.
Un’autobomba doveva esplodere vicino ai mezzi dei carabinieri, provocando centinaia di morti.
Una vendetta contro i militari che avevano catturato Totò Riina.
Una vendetta che sembra eccessiva a Spatuzza:
«Ancora morti innocenti», dopo quelli di Milano e Firenze.
Ma Graviano conferma la strategia:
«Dobbiamo continuare perché abbiamo una cosa in piedi».
Per fortuna l’attentato all’Olimpico
sfuma per un guasto tecnico che non fa funzionare il telecomando e non «fu riprogrammato» perché quattro giorni dopo i Graviano verranno arrestati da «Gigi il cacciatore», un ristorante di Milano.
Cosa avevano in piedi i Graviano?
Proprio questo dovranno accertare le indagini, senza che ancora sia stato emesso un solo giudizio neppure ipotetico.
Alcuni stralci di interrogatori che riguardan
o il sen. Marcello Dell’Utri sono stati inviati a Palermo perché in quella Corte d’Appello si celebra il secondo grado del processo che vede il politico già condannato per concorso esterno in associazione mafiosa.
Ma non è, questo, il solo motivo per cui Palermo entra ancora nelle indagini.
Proprio domani è previsto un vertice coi pubblici ministeri di Caltanissetta.
Un avvenimento che potrebbe essere alla base delle preoccupazioni di Berlusconi che ha sempre det
to di «temere Palermo».
E’ il secondo incontro e dovrebbe servire a delineare una strategia, in conseguenza delle novità contenute nei verbali di Spatuzza, inviati dalla Procura di Firenze. Caltanissetta sembra più interessata ancora alla «rivisitazione» del processo Borsellino, messo in crisi dalla «verità» introdotta da Gaspare Spatuzza, ma anche a qualche «aggiustamento» proveniente dai racconti sui mandanti occulti a proposito sia della strage di via D’Amelio che dell’attentato di Capaci che sterminò
Giovanni Falcone, Francesca Morvillo la moglie, e tre uomini della scorta.
La Procura di Palermo, invece, indaga sulla cosiddetta trattativa tra Stato e mafia. Anche questo è un filone battuto da anni, ma le dichiarazioni di Spatuzza richiedono ulteriori verifiche.
Secondo il pentito, la trattativa è esistita ed è durata parecchi anni, anche dopo il fallimento della strategia stragista di Totò Riina.
Gli episodi da verificare riguardano anche notizie inedite sull’«asse Dell’Utri, Mangano, Graviano».
Sostiene il pentito che oltre alla presenza fisica, documentata, di Vittorio Mangano nella villa di Berlusconi, sarebbe rintracciabile anche un legame tra «lo stalliere di Arcore» e i Graviano, tanto che - dopo la strage di Firenze –
«nel 1994 i Graviano mi mandano a mettere a posto il mandamento di Porta Nuova, alquanto turbolento, che era di competenza di Mangano ma lui era assente».
Ma Palermo ha anche dell’altro da verificare, anche se le perplessità su Spatuzza sembrano affievolirsi in ragione dei riscontri offerti alle sue tesi e anche alla precisione con cui distingue.
E’ stato lui, per esempio, a specificare - a proposito dell’incontro riferito tra Renato Schifani e Giuseppe Graviano - che
«Schifani non era in politica e Graviano non era latitante».
Un episodio da decifrare riguarda una campagna pubblicitaria con enormi cartelloni, datata 1992, che Dell’Utri, secondo Spatuzza, avrebbe promosso a Palermo in vista della discesa in campo di Forza Italia.
I cartelloni, dice Spatuzza, furono rimossi in fretta quando vennero fuori i legami tra Dell’Utri e Vittorio Mangano.
Sul momento non si trovavano riscontri a questa storia, poi Spatuzza ha chiesto di esser portato a Brancaccio per ritrovare quegli spazi pubblicitari.
Un sopralluogo a Brancaccio, effettuato in gran segreto, alla fine ha portato al ritrovamento delle basi di cemento che reggevano i cartelloni raffiguranti, a quanto pare, un bambino che gridava - storpiando la frase –
«Fozza Italia».
E pure qui siamo ancora nel campo degli indizi, come dire non ci sono impronte digitali, in vero molto difficili da trovare nelle indagini su mafia e politica.
Da qualche mese, infine, Palermo ha trovato un ulteriore «fonte» sulla cosiddetta «trattativa».
Massimo Ciancimino racconta, attimo dopo attimo, la mediazione - sostenuta dal padre - fra Riina e i carabinieri del Ros impegnati a far cessare le stragi.
Nell’ultimo interrogatorio Massimo Ciancimino ha esibito tre «pizzini» inviati al padre da Bernardo Provenzano.
Dal testo è desumibile un contatto tra il boss ed esponenti del mondo politico
(dalle date si dovrebbe essere alla Seconda Repubblica).
«Ho parlato con nostro amico sen.», scrive don Binnu.
Il tema sembra quello dell’amnistia e di benefici legislativi.
Il toto senatore è aperto.
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La famiglia di Damiano Damiani
“Come sarebbe stata la nostra cinematografia senza
MANI SULLA CITTA’
IL GIORNO DELLA CIVETTA
SACCO E VANZETTI
IL CASO MATTEI
?
Quel cinema è stato uno dei momenti di grande democrazia dell’Italia.
Ci piacerebbe che chi ci governa lo rispettasse”.
L’EUROPA BEFFEGGIA
LUI ED I SUOI ORBI ELETTORI
LE MONDE
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