(Il cantastorie)
Qualche anno fa mi ero spogliato dalle vesti di Barbapedana, il vecchio cantastorie delle osterie milanesi di Porta Tosa, oggi Porta Vittoria, deponendole in cantina.
Ma il suo ricordo è sempre stato vivo.
Mi pare che oggi ci vorrebbe la necessità di sentire cantare a dovere gli sfottò nei confronti di coloro i quali, credendosi potenti, con tutte le armi in mano, ne combinano di cotte e di crude soprattutto nei confronti della gente indifesa ma anche nei riguardi di coloro che si battono per il ripristino della legalità e dei sani costumi.
Fatta questa debita premessa, eccomi ad esternare i miei pensieri.
Mi vado chiedendo da tempo quale commedia avrebbe potuto scrivere oggi il grande commediografo veneziano Carlo Goldoni se, invece di vivere nel XVIII° secolo, fosse stato un nostro contemporaneo.
Quale sarebbe stato il titolo attribuito alla stessa ed a chi poteva raccomandare la sua moderna opera, così come ai suoi tempi soleva fare per qualcuna delle molte commedie da lui scritte, atteso che all’altezza di quei nobili patrizi di alto lignaggio vissuti allora oggigiorno non ce n’è più traccia alcuna.
Interrogativi questi cui è difficile rispondere, anche per motivi di opportunità.
Il “Bugiardo”, con un moderno Lelio di lombarda estrazione” o “L’impostore”; troppa gente potrebbe senza alcun affanno cimentarsi in questo ruolo,
“ La bancarotta”, avanti tutta, il “ Servitore di due padroni” con protagonista uno dei tanti voltagabbana di oggi, “Il teatro comico”, l’attuale governo, “Le baruffe chiozzotte”, il Parlamento o, infine, per non farla troppo lunga,
“Il cavalier giocondo”, con protagonista un notissimo personaggio di oggi che tra frizzi, corna e lazzi, ha rovinato l’Italia ?
Per non parlar del noto Schifani, cognome onomatopeico, ed il Fini dai nuovi confini.
Con la sua inimitabile arguzia alquanto tagliente, Goldoni avrebbe potuto costruirsi una immensa fortuna e, probabilmente, anche qualche anno di galera, prescrizioni od indulti permettendo ed una infinità di cause civili per risarcimento danni..im-morali.
Oggi, purtroppo, non c’è traccia di simili talenti, anche se qualcheduno tenta ogni tanto di scrivere un qualcosa di buffo sugli eventi quotidiani, mettendo alla berlina i comportamenti di alcuni personaggi, soprattutto politici, che indebitamente, mancando di ogni dote culturale, assurgono agli onori delle cronache più per i loro demeriti che per qualcosa di buono messo in atto.
Mi sono arreso ed ho tralasciato di addentrarmi in ogni ulteriore ricerca ma, invecchiando, la mente incomincia ad un certo punto a fare degli scherzetti, come per esempio farti dimenticare i fatti avvenuti ieri ma non quelli degli anni della tua prima età.
Avevo cinque anni e vivevo in una tranquilla Milano, lontana un secolo rispetto a quella invivibile di oggi, in corso XXII marzo, nel quartiere di porta Vittoria, un tempo porta Tosa, così ribattezzato come la via, per ricordare la cacciata degli austriaci a conclusione delle 5 giornate; proprio in questi luoghi i milanesi insorti, scavalcando le barricate, misero in fuga gli odiati nemici, gli austriaci dai lunghi baffoni; era il 22 marzo 1848.
Mia nonna materna, come da rituale giornaliero, avvicinandosi l’ora della cena, mi mandava a chiamare il nonno che ogni pomeriggio, tranne quello delle domeniche, soleva recarsi in un’osteria, che si trovava nell’attigua piazza di Santa Maria del Suffragio, per giocare a carte, a scopone e briscola se mal non ricordo, con i soliti tre amici, sorseggiando tra una smazzata e l’altra il solito quartino di “Barbera” dell’ Oltrepò pavese.
Non sempre andavo volentieri anche perché, entrando in uno dei due grandi locali, sembrava come sprofondarsi in una cortina di nebbia, prodotta però dal fumo dei molti mezzi toscani fumati dagli avventori, e si avvertiva un nauseante, almeno per me, acre odore di vino che mi faceva tossire; ma al sabato era tutto diverso, correvo anche senza averne avuto ancora il comando perché era un pomeriggio speciale: in osteria veniva un cantastorie !
A lungo andare mi aveva preso in simpatia; seduto sempre proprio davanti a lui, tra una storia e l’altra, affascinato dal suo indubbio talento, gli ponevo molte domande e lui, paziente, mi dava sempre risposta sino a che un giorno, allungata oltremodo la pausa, volle raccontarmi una storia, quella del più grande e famoso cantastorie milanese che, abitando a porta Tosa, aveva anche lui cantato in quella osteria.
E’ stato il più grande nel genere, “El cantastori” per eccellenza, che rispondeva al nome di Enrico Mulaschi, meglio noto come il “ Barbapedana” (giovanotto, divenuto poi nel tempo come sinonimo di cantastorie), ex garzone di osteria e dotato di una notevole fantasia, iniziava e terminava la sua rappresentazione con una nota canzone:
“Barbapedana el gh’aveva on gilè
(Barbapedana aveva un gilè)
senza el denanz cont via el dèdree
( senza il davanti e con via il di dietro)
cont i oggioeu longh una spana
( con gli occhielli lunghi una spanna)
l’era il gilè del Barbapedana”
( era il gilè di Barbapedana).
Allora non ci si arricchiva cantando o facendo ridere gli avventori, era un altro mondo sebbene fossimo entrati in guerra, la sanguinosa seconda guerra mondiale; bastava poco o nulla per divertirsi, gli animi erano buoni e sinceri, si era pronti nel quartiere ad aiutarsi l’un l’altro, alle volte si tirava la cinghia perché c’era l’autarchia a seguito delle “sanzioni” inflitteci dalla Società delle Nazioni ed il razionamento su tutto, compresi i generi alimentari a cominciare dal pane che era fatto con la crusca; lo chiamavo pane nero ed ognuno aveva una tessera con dei bollini che, all’atto dell’acquisto, dovevi consegnarli al panettiere assieme ai soldi, anche allora c’erano in circolazione i centesimi ma di lira.
Il pane bianco, fatto con la farina di grano, lo vendevano di domenica alla “borsa nera” in piena clandestinità con prezzi “fuori listino” in un luogo sicuro da intromissioni dei militi con la camicia nera.
Questi lontani ricordi hanno fatto insorgere in me il desiderio di fare, ma solo attraverso degli scritti e per tutto il tempo che mi rimarrà da vivere, anch’io il cantastorie, raccontando e commentando, come si faceva a quei tempi, tra il serio ed il faceto alcuni fatti dei nostri giorni con l’assegnazione in modo virtuale, mese per mese, un insolito premio alla “Faccia di palta”, sinonimo allusivo di un altro sconveniente epiteto, una specie di “Maschera d’argento” non certo di metallo pregiato ma di vile “fango marrone”; allora, eravamo nel corso del ventennio fascista, esisteva la censura e occorreva stare ben attenti a quello che si diceva o scriveva, pena una villeggiatura gratuita al confino, come l’ha di recente definita qualcuno; oggi, fortunatamente, la censura è stata da tempo bandita dalla nostra Costituzione in base al suo art. 21, nonostante che qualcuno oggi, duolendosene, di fatto la impone con altre forme di coercizione ed in massima parte c’è già riuscito.
Il vostro cantastorie
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