Prima di addentrarci nell’esame del testo del Concordato sottoscritto nel 1984 ci sembra di una certa utilità soffermarci su una importante decisione della Corte Costituzionale, la sentenza n. 16/ 1978, che ebbe, su un determinato punto della sua motivazione, a suscitare notevole malcontento tra i movimenti e partiti politici che oggi si sono schierati apertamente a favore della regolamentazione legislativa dei DICO ma che, indirettamente, ha in modo alquanto chiaro e netto stabilito un principio costituzionale che può essere, senza alcun dubbio, utile a chi sostiene oggi a spada tratta la necessità di una regolamentazione e, quindi, di una protezione giuridica a favore dei componenti delle c.d. “coppie di fatto”.
Nel 1977 alcuni politici di rilievo appartenenti al Partito Radicale raccolsero le firme, ben oltre le necessarie 500.000, perché venissero sottoposti al voto dei cittadini alcuni referendum popolari, 8 per la precisione, per l’abrogazione in parte od in toto di altrettante leggi dello Stato a quel tempo vigenti.
Tra di essi , il più importante, oltre alla legge sul finanziamento ai partiti, vi era quello con il quale si richiedeva l’abrogazione di alcuni articoli, tra i quali, in particolare, l’art. 1, della legge 27 maggio 1929, n. 810 con la quale veniva disposta “ l’esecuzione del Trattato sottoscritto in Roma fra la Santa Sede e lo Stato l’ 11 febbraio 1929…..e dell’intero Concordato allegato”.
Proprio Attraverso tale mezzo giuridico il Concordato divenne legge del nostro Stato.
In buona sostanza l’intenzione dei promotori di questo referendum era quella di chiamare alle urne i cittadini aventi diritto al voto perché esprimessero in prima persona la loro volontà circa il mantenimento o meno dei Patti Lateranensi tra le leggi vigenti nel nostro Paese.
L’Ufficio Centrale dei Referendum presso la Corte di Cassazione, ai sensi dell’art. 75 comma 2 della Costituzione, rimise alla Consulta la decisione finale sull’ammissibilità di alcuni di questi referendum in quanto, in base alla suddetta norma, non sono ammissibili i referendum popolari abrogativi , per motivi sin troppo evidenti, su:
“ leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.
Con la sentenza più sopra indicata la Consulta dichiarò inammissibili parte di questi referendum abrogativi, dedicando particolare riguardo al Trattato e relativo Concordato tra Stato e Chiesa stipulato l’11 febbraio 1929, motivandone l’inammissibilità con il rilievo che era proprio l’art. 1 del Trattato che integrava la fattispecie prevista dal comma 2 dell’art.75 della Costituzione.
La Corte Costituzionale, in buona sostanza, individuò in questa norma ostativa il fondamento della sua decisione negativa ritenendola come la norma attuativa del Concordato, cioè l’atto formale e sostanziale attraverso il quale lo Stato italiano recepiva nella propria legislazione il completo articolato di un trattato internazionale stipulato tra due Stati diversi.
Se ne deduce, pertanto, che i Patti Lateranensi hanno, giuridicamente, la dignità di un trattato internazionale sottoscritto da due Stati indipendenti, diversi l’uno dall’altro.
Assodato questo principio inappellabile, ci proponiamo adesso la stessa domanda che, come abbiamo già visto, si era già posta la giornalista Oppo; cioè se la Città del Vaticano potesse di continuo condizionare attraverso dei “dictat”, qual è stato il suo “non possumus” od altre affermazioni altrettanto perentorie di fare o di non fare, senza possibilità di deroga alcuna, alla Repubblica Italiana, in persona dei suoi parlamentari e dei suoi semplici cittadini nonchè, in caso di risposta affermativo, se non valga allora anche, in tema di reciprocità, che quest’ultima e costoro, sullo stesso terreno di discussione, replicare con un altrettanto perentorio:
Il legiferare senza condizionamenti e ritorsioni di sorta - oggi fortunatamente solamente morali perché un tempo era previsto anche il rogo - per regolamentare casi concreti riguardanti più cittadini, ma fosse anche uno solo allorchè dovesse trovarsi in una situazione discriminata rispetto agli altri, è per uno Stato democratico un obbligo civile e morale tanto più allorché si debbano tutelare in ogni caso delle persone non protette alla stessa maniera di altri, pur trattandosi, in ogni caso, di individui aventi personalità giuridica nel più ampio senso della parola.
Uno Stato laico e democratico nei principi non può non esserlo anche nei fatti, a cominciare dalla sua legislazione e, se così non fosse, questo Stato diverrebbe una specie di azzeccagarbugli dal fare discriminante in quanto da un lato darebbe un qualcosa ad uno negandolo, se non addirittura togliendolo, ad un altro.
E’ per tale motivo che lo Stato, comunque la si voglia pensare, non può rimanere estraneo ed insensibile di fronte a talune situazioni di fatto, cioè reali, anche se qualcuno possa ritenerle “scomode”, non ancora giuridicamente regolamentate ed esimersi dal legiferare per la regolarizzazione di ogni situazione esistente entro i propri confini territoriali, purchè non contrarie alle leggi penali in vigore, che si evidenziano nel corso degli anni.
Volenti o nolenti è la stessa nostra Costituzione che afferma come
“ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali……….E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine……… sociale, che limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini impediscono…….”
Tra le tesi contrarie a questa interpretazione della norma costituzionale, c’è quella che richiama l’art. 29 della stessa Carta Costituzionale che così recita:
“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”
ma questa definizione parrebbe
non escludere eventuali altre forme di convivenza “familiare” ove si consideri che il successivo art. 30 parifica i figli nati tra genitori coniugati a quelli nati fuori di esso, i c.d. “figli naturali”.
E per figlio naturale - un tempo sciaguratamente definito come “illegittimo” - si intende proprio il figlio nato fuori dal matrimonio, piaccia o non piaccia al sofista Buttiglione od alla senatrice fondamentalista cattolica indossante il cilicio – fatti suoi ma non può imporlo agli altri suoi simili - che dà, il primo, ad ogni termine giuridico il significato che più giova alla causa da lui perorata.
Nel marzo del 1958 il vescovo di Prato, mons. Pietro Fiordelli, cacciò fuori dalla chiesa nella quale stava celebrando la santa Messa, definendoli come “pubblici peccatori e concubini”, una coppia di persone per il solo fatto di essersi sposati civilmente; da allora non è trascorso un millennio ma solamente 49 anni, quasi mezzo secolo; è il caso di chiederci cosa sia cambiato nel frattempo ?
Sino ad ieri ci hanno raccontato che le anime dei bambini morti non ancora battezzati non avevano diritto di andare in Paradiso, essendo rimasti ancora impuri in quanto non liberati dal peccato originale; ma il figlio di Dio non aveva detto “ lasciate che i bambini vengano a me e non glielo impedite" senza fare per loro distinzione alcuna ? Oggi ci viene detto che il Limbo è una mera ipotesi teologica, ma a questo punto pare lecito chiedersi dove siano andate a finire queste anime innocenti. Sembrava oramai prossima la cancellazione definitiva del Limbo ma Papa Benedetto XVI° ne ha rimandato l’annuncio, rimettendo la questione ad una Commissione che, a quel che si dice, non pronuncerà il suo parere non prima di due anni.
La cremazione, prima esecrata, oggi tollerata.
Come si vede anche il parere della Chiesa su determinate questioni cambia, così come anche la legislazione civile in senso lato col mutar dei tempi e degli usi e costumi; guai se così non fosse, altrimenti saremmo ancora alla “legge del taglione” anche se qualche nostalgico padano la vorrebbe ancora vigente per poterla applicare non a tutti ma solamente agli extra-comunitari, garrottiano a parte che, guadando sottacqua il sacro Po, si è intruppato subito tra le schiere di una certa alleanza di più ampio respiro in quanto nazionale e non regionale.
Se il legislatore però dorme o, quanto meno sonnecchia a fronte del mutar dei tempi, non altrettanto fanno i 15 giudici della Corte Costituzionale che, subissati da una innumerevole serie di ordinanze da parte di diversi giudici di merito, con sentenza n. 117 del 1979 dichiarano l’illegittimità costituzionale degli artt. 251 comma 2 del codice di procedura civile – si verte in tema di giuramento in cause civili o processi penali da parte di testimoni e/o consulenti – 142 comma 1, 316 comma 2, 329 comma 2, 449 comma 2 del codice di procedura penale laddove il giudice, ammonendo il testimone sull’importanza religiosa del giuramento e dopo le parole “ consapevole della responsabilità che con il giuramento assumete davanti a Dio….” non è contenuto l’inciso “se credente”.
Per chi non lo conoscesse il testo del giuramento nei due codici di procedura sin dalla loro entrata in vigore era il seguente:
“Consapevole della responsabilità che col giuramento assumete davanti a Dio e agli uomini giurate di dire la verità e null’altro che la verità”; dopo questo ammonimento il teste e/o il consulente doveva rispondere: “Lo giuro”.
Viene poi la “depenalizzazione” del reato previsto e punito dall’art. 724 del Codice Penale (Bestemmia e manifestazioni oltraggiose verso i defunti).
Previsto dal Codice Rocco del 1930 – sotto il regime fascista – nella seguente formulazione:
“ Chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato, è punito con l’ammenda da lire ventimila a seicentomila….”.
La Corte Costituzionale , con sentenza n. 440 del 18 ottobre del 1995, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di questo comma limitatamente alle parole “o i Simboli o le Persone venerati nella religione dello Stato”.
Ma qui siamo già in epoca successiva al Concordato del 1984 ma la norma penale era rimasta tale e quale alla situazione quo ante !
Adesso, dopo il Decreto Legislativo del 1999, questo reato è divenuto un illecito amministrativo che prevede una sanzione amministrativa da lire centomila a seicentomila.
Ma passiamo, facendo un piccolo passo indietro, all’esame del Concordato sottoscritto in Roma il 18 febbraio del 1984 dal cardinale Agostino Casaroli e Bettino Craxi, Presidente del Consiglio,
accordo che verrà ratificato e recepito nel nostro ordinamento giuridico con la Legge 25 marzo 1985, n. 121.
Tale nuovo “patto” a modifica di quanto contenuto in quello del 1929 fu ritenuto da entrambe le parti necessario per il processo della trasformazione politico-sociale avvenuto in Italia in oltre mezzo secolo e degli sviluppi di alcuni principi sviluppatisi all’interno della Chiesa cattolica in seguito al Concilio Vaticano II°.
Queste, almeno, furono le motivazioni addotte per giustificare una “revisione” del vecchio Concordato.
Cambiarono in effetti alcune cose come per esempio, scegliendo le innovazioni più importanti, le seguenti:
- agli effetti tributari gli enti ecclesiastici aventi fini di religione o di culto, limitatamente alle attività diverse da queste ultime attività, sono soggette alle leggi dello Stato che regolamentano tali attività ed al regime tributario previste per le medesime;
- la scelta da parte degli studenti e se minori d’età di scegliere al momento dell’iscrizione se avvalersi o meno dell’insegnamento religioso cattolico;
- le nomine dei docenti dell’Università Cattolica del Sacro Cuore e dei dipendenti Istituti sono subordinate al gradimento, sotto il profilo religioso, della competente autorità ecclesiastica.
A questo testo fece seguito un c.d. PROTOCOLLO ADDIZIONALE destinato a dare una interpretazione autentica ad alcune norme concordatarie onde eliminare da subito eventuali diatribe.
- Punto 1 : quella cattolica non è più l’unica religione dello Stato italiano;
- Punto 2: l’autorità giudiziaria avrà l’obbligo di comunicare a quella ecclesiastica competente per territorio l’apertura di eventuali procedimenti penali a carico di ecclesiastici;
- Punto 3: alcuni presupposti perché i matrimoni ecclesiastici possano essere riconosciuti validi dallo Stato e quindi trascritti nei registri di stato civile, per esempio quello di non essere uno dei contraenti il matrimonio interdetto per infermità di mente, il non avere gli sposi contratto in precedenza altro valido matrimonio civile, la presenza di cause ostative quali quelle derivanti da delitto od affinità in linea retta;
- Punto 4: insegnamento della religione cattolica attraverso insegnanti riconosciuti idonei dalla Chiesa con pieno rispetto della libertà di coscienza degli alunni.
Ma il principio più importante è la nuova definizione data alla religione cattolica la quale non è più riconosciuta come religione di Stato bensì una delle varie religioni professate nello Stato anche se, a quel che sembra, si tratta solamente di un principio quasi sempre dimenticato dai alcuni nostri governanti e da molti legislatori.
Però, nonostante tutto, alcuni atteggiamenti da parte della Chiesa e di alcuni responsabili di Istituti scolastici e, probabilmente l’erronea interpretazione data nelle circolari da parte delle Autorità scolastiche centrali, sollevarono le proteste di molti genitori con particolare riguardo all’ora alternativa a quella di religione nonché al fatto che il profitto della materia religiosa, non obbligatoria, venisse accorpato a quello delle altre materie ufficialmente obbligatorie.
Il Pretore di Firenze, investito da molte cause su questa materia, con ordinanza del 30 marzo 1997, sollevò questione di legittimità costituzionale, in riferimento a vari articoli della Costituzione , 2, 3 e 19, dell’art 9 della Legge attuativa del Concordato del 1984 e inviò il tutto al giudizio della Consulta.
Tralasciando il risvolto giuridico della vertenza che, per la verità, ha rilievo sì importante ma non certo al punto da spiegare quello che era il nocciolo della questione, cioè la vera materia del contendere, per cui meritano di essere qui richiamate alcune considerazione dei giudici della Consulta.
Da parte di alcuni cittadini vi erano due ben precise lagnanze:
1- la discriminazione per motivi religiosi;
2- il pluralismo religioso, così come previsto, sembrava limitare il diritto di non professare alcuna religione.
A titolo di cronaca la Consulta dichiarò come infondati tutti i ricorsi riuniti per competenza oggettiva ma nel suo profondo esame storico-giuridico del problema, partendo dallo Statuto Albertino sino al 1929, non ritenne di fare a meno, incidenter tantum, di ribadire come
“ Il principio di laicità, quale emerge dagli artt. 2, 3, 7, 8, 19 e 20 della Costituzione implica non una indifferenza da parte dello Stato dinanzi alle religioni ma una garanzia dello Stato per la salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale”.
Da qui l’ulteriore affermazione che se da un lato lo Stato garantisce l’insegnamento scolastico della religione cattolica a chi professa questa fede dall’altro ha il dovere di impedire che con alcune norme aventi solo efficacia amministrativa – tipo circolari ministeriali - sia limitata la libertà della scelta educativa dei genitori verso i propri figli.
“Torna qui la logica strumentale propria dello Stato - comunità che accoglie e garantisce l’autodeterminazione dei cittadini, mediante il riconoscimento di un diritto soggettivo di scelta se avvalersi o non avvalersi del predisposto insegnamento della religione cattolica”.
Nel tema che ci interessa, PACS o DICO che siano, siamo ancora nel campo progettuale
Ma, siccome nel nostro ordinamento giudiziario non trova né spazio né competenza alcun Tribunale Ecclesiastico tipo Tribunale d’Inquisizione, non si vede il perché, dopo queste massime della Consulta non possano applicarsi altre su altre fattispeci giuridiche già regolamentate o in via di regolamentazione.
Certo da un punto di vista ecclesiastico siamo già arrivati agli anatemi, dai “vae legatis” – guai ai deputati – siamo passati alla negazione dell’offerta del sacramento della comunione, si arriverà cammin facendo alla scomunica con promessa, alla morte, delle fiamme per perpetue.
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