IN TANTI SI CHIEDONO SE L’ITALIA SIA DIVENUTA DI COLPO RAZZISTA
Carlo Bonini, con un suo articolo di ieri pubblicato su Repubblica.it - e che qui di seguito vi propongo - ci aiuta a comprendere come poter dare una risposta al dilemma di molti.
Non ci sono solo aggressioni.
In Italia la xenofobia passa anche attraverso gesti in apparenza minori e quindi considerati come “innocui “, alla stregua ”di scortesie da parte di qualche maleducato.
Ma non è così e questi atti "ostili" si vanno facendo sempre più numerosi.
Leggete attentamente questo articolo il cui contenuto non dovrà mai essere dimenticato.
Nel Belpaese dell'intolleranza il microrazzismo quotidiano
di CARLO BONINI
Il giorno in cui H., cittadino tunisino con regolare permesso di soggiorno, chiese di partecipare al bando comunale da sessanta licenze per taxi, scoprì che tassisti, qui da noi, si diventa solo se cittadini italiani.
Il giorno in cui F. ed L., coppia nigeriana residente in Veneto, risposero a un annuncio per cuochi, scoprirono che l'albergo che li cercava, di neri non ne voleva. E "non per una questione di razzismo", gli venne detto dalla costernata direttrice della pensione, "perché in giardino, ad esempio", lavoravano "da sempre solo i pachistani".
Il giorno in cui S., deliziosa adolescente napoletana, finì nella sala d'attesa di un pediatra di base di Roma accompagnata dal padre, alto dirigente del Dipartimento della pubblica sicurezza, realizzò che insieme a lei attendevano soltanto bambini dal colore della pelle diverso dal suo. E ne chiese conto: "Papà, perché da quando ci siamo trasferiti a Roma siamo diventati così sfigati?".
Il Razzismo italiano è un
"pensiero ordinario".
Abita il pianerottolo dei condomini, le fermate dell'autobus, i tavolini dei bar, i vagoni ferroviari.
"Negro",
una di quelle parole ormai pronunciate con senso liberatorio nel lessico pubblico, non nelle barzellette.
Volendo, da esporre sulle lavagne del menù del giorno di qualche tavola calda, per allargare a una parte degli umani il divieto di ingresso ai cani.
L'Italia Razzista è la geografia di un odio di prossimità, che nei primi dieci mesi di quest'anno ha conosciuto picchi che non ricordava almeno dal 2005.
Un odio "naturale", dunque apparentemente invisibile, anche statisticamente, fino a quando non diventa fatto di sangue.
Il pestaggio di un ragazzo ghanese in una caserma dei vigili urbani di Parma; il linciaggio di un cinese nella periferia orientale di Roma; il rogo di un capo nomadi nel napoletano; la morte per spranga, a Milano, di un cittadino italiano, ma con la pelle nera del Burkina Faso; l'aggressione di uno studente angolano all'uscita di una discoteca nel genovese.
Dunque, cosa si muove davvero nella pancia del Paese?
Al quinto piano di Largo Chigi, 17, Roma, uffici della presidenza del Consiglio dei ministri, Dipartimento per le pari opportunità, lavora da quattro anni un ufficio voluto dall'Europa la cui esistenza, significativamente, l'Italia ignora.
Si chiama
Ufficio nazionale antidiscriminazione razziale
Ha un numero verde (800901010) che raccoglie una media di 10 mila segnalazioni l'anno, proteggendo l'identità di vittime e testimoni.
È il database nazionale che misura la qualità e il grado della nostra febbre xenofoba. Arriva dove carabinieri e polizia non arrivano.
Perché arriva dove il disprezzo per il diverso non si fa reato e resta "solo" intollerabile violenza psicologica, aggressione verbale, esclusione ingiustificata dai diritti civili.
Nei primi nove mesi di quest'anno l'Ufficio ha accertato 247 casi di discriminazione razziale, con una progressione che, verosimilmente, pareggerà nel 2008 il picco statistico raggiunto nel 2005.
Roma, gli hinterland lombardi e le principali città del Veneto si confermano le capitali dell'intolleranza.
I luoghi di lavoro, gli sportelli della pubblica amministrazione, i mezzi di trasporto fotografano il perimetro privilegiato della xenofobia.
Dove i cittadini dell'Est europeo contendono lo scettro di nuovi Paria ai maghrebini.
In una relazione di 48 cartelle ("La discriminazione razziale in Italia nel 2007") che nelle prossime settimane sarà consegnata alla Presidenza del Consiglio (e di cui trovate parte del dettaglio statistico in queste pagine) si legge:
"Il razzismo è diffuso, vago e, spesso, non tematizzato (...)
La cifra degli abusi è l'assoluta ordinarietà con cui vengono perpetrati.
Gli autori sembra che si sentano pienamente legittimati nel riservare trattamenti differenziati a seconda della nazionalità, dell'etnia o del colore della pelle".
Privo di ogni sovrastruttura propriamente ideologica, il razzismo italiano si fa
"senso comune".
Appare impermeabile al contesto degli eventi e all'agenda politica (la curva della discriminazione, almeno sotto l'aspetto statistico, non sembra mai aver risentito in questi 4 anni di elementi che pure avrebbero potuto influenzarla, come, ad esempio, atti terroristici di matrice islamica).
Procede al contrario per contagio in comunità urbane che si sentono improvvisamente deprivate di ricchezza, sicurezza, futuro, attraverso "marcatori etnici" che si alimentano di luoghi comuni o, come li definiscono gli addetti,
"luoghi di specie".
Dice Antonio Giuliani, che dell'Unar è vicedirettore:
"I romeni sono subentrati agli albanesi ereditandone nella percezione collettiva gli stessi e identici tratti di "genere".
Che sono poi quelli con cui viene regolarmente marchiata ogni nuova comunità percepita come ostile:
"Ci rubano il lavoro", "Ci rubano in casa", "Stuprano le nostre donne".
Dico di più: i nomadi, che nel nostro Paese non arrivano a 400 mila e per il 50% sono cittadini italiani, sono spesso confusi con i romeni e vengono vissuti come una comunità di milioni di individui.
E dico questo perché questo è esattamente quello che raccolgono i nostri operatori nel colloquio quotidiano con il Paese".
L'ordinarietà del pensiero razzista, la sua natura socialmente trasversale, e dunque la sua percepita "inoffensività" e irrilevanza ha il suo corollario nella modesta consapevolezza che, a dispetto anche dei recenti richiami del Capo dello Stato e del Pontefice, ne ha il Paese (prima ancora che la sua classe dirigente).
Accade così che le statistiche del ministero dell'Interno ignorino la voce
"crimini di matrice razziale",
perché quella "razzista" è un'aggravante che spetta alla magistratura contestare e di cui si perde traccia nelle more dei processi penali.
Accade che nei commissariati e nelle caserme dei carabinieri di periferia nelle grandi città, il termometro della pressione xenofoba si misuri non tanto nelle denunce presentate, ma in quelle che non possono essere accolte, perché
"fatti non costituenti reato".
Come quella di un cittadino romeno, dirigente di azienda, che, arrivato in un aeroporto del Veneto, si vede rifiutare il noleggio dell'auto che ha regolarmente prenotato perché - spiega il gentile impiegato al bancone - il Paese da cui proviene "è in una black list" che farebbe della Romania la patria dei furti d'auto e dei rumeni un popolo di ladri.
O come quella di un cittadino di un piccolo Comune del centro-Italia che si sveglia un mattino con nuovi cartelli stradali che il sindaco ha voluto per impedire
"la sosta anche temporanea dei nomadi".
La xenofobia lavora tanto più in profondità quanto più si fa odio di prossimità (è il caso del maggio scorso al Pigneto).
Disprezzo verso donne e uomini etnicamente diversi ma soprattutto socialmente "troppo contigui" e numericamente non più esigui.
Anche qui, le statistiche più aggiornate sembrano confermare un'equazione empirica dell'intolleranza che vuole un Paese entrare in sofferenza quando la percentuale di immigrazione supera la soglia del 3 per cento della popolazione autoctona.
In Italia, il Paese più vecchio (insieme al Giappone), dalla speranza di vita tra le più alte al mondo e la fecondità tra le più basse, l'indice ha già raggiunto il 6 per cento. E se hanno ragione le previsioni delle Nazioni Unite, tra vent'anni la percentuale raggiungerà il 16, con 11 milioni di cittadini stranieri residenti.
Franco Pittau, filosofo, tra i maggiori studiosi europei dei fenomeni migratori e oggi componente del comitato scientifico della Caritas che cura ogni anno il dossier sull'Immigrazione nel nostro Paese (il prossimo sarà presentato il 30 ottobre a Roma), dice:
" È un cruccio che come cristiano non mi lascia più in pace.
Se la storia ci impone di vivere insieme perché farci del male anziché provare a convivere?
Bisogna abituare la gente a ragionare e non a gridare e a contrapporsi.
Non dico che la colpa è dei giornalisti o dei politici o degli uomini di cultura o di qualche altra categoria.
La colpa è di noi tutti.
Rischiamo di diventare un paese incosciente che, anziché preparare la storia, cerca di frenarla.
Si può discutere di tutto, ma senza un'opposizione pregiudiziale allo straniero, a ciò che è differente e fa comodo trasformare in un capro espiatorio.
Alcuni atti rasentano la cattiveria gratuita.
Mi pare di essere agli albori del movimento dei lavoratori, quando la tutela contro gli infortuni, il pagamento degli assegni familiari, l'assenza dal lavoro per parto venivano ritenute pretese insensate contrarie all'ordine e al buon senso.
Poi sappiamo come è andata".
Se Pittau ha ragione, se cioè sarà la Storia ad avere ragione del "pensiero ordinario", l'aria che si respira oggi dice che la strada non sarà né breve, né dritta, né indolore.
I centri di ascolto dell'Unar documentano che nel nord-Est del paese sono cominciati ad apparire, con sempre maggiore frequenza, cartelli nei bar in cui si avverte che "gli immigrati non vengono serviti" (se ne è avuto conferma ancora quattro giorni fa a Padova, alle "3 botti" di via Buonarroti, che annunciava il divieto l'ingresso a "Negri, irregolari e pregiudicati").
E che nelle grandi città anche prendere un autobus può diventare occasione di pubblica umiliazione, normalmente nel silenzio dei presenti.
Come ha avuto modo di raccontare T., madre tunisina di due bambini, di 1 e 3 anni. "Dovevo prendere il pullman e, prima di salire, avevo chiesto all'autista se potevo entrare con il passeggino.
Mi aveva risposto infastidito che dovevo chiuderlo.
Con i due bambini in braccio non potevo e così ho promesso che lo avrei chiuso una volta salita.
L'autista mi ha insultata.
Mi ha gridato di tornarmene da dove venivo.
E non è ripartito finché non sono scesa".
T., appoggiata dall'Unar, ha fatto causa all'azienda dei trasporti.
L'ha persa, perché non ha trovato uno solo dei passeggeri disposto a testimoniare. In compenso ha incontrato di nuovo il conducente che l'aveva umiliata.
Dice T. che si è messo a ridere in modo minaccioso.
"Prova ora a mandare un'altra lettera", le ha detto.
(25 ottobre 2008)
Carlo Bonini, giornalista e scrittore di alcuni libri – famoso il suo “Guantanamo- Viaggio nella prigione del terrore” - con questo suo articolo, credo che ci aiuti a capire questo nuovo razzismo di massa che serpeggia silenziosamente in Italia in ogni suo angolo anche remoto.
Fatti eclatanti costituiscono il picco di moltissimi altri episodi che oserei definire, anche se non lo sono affatto perché indicatori di sintomi di una intolleranza senza limiti verso i diversi, come il modus vivendi di una quotidiana normalità.
Voglio raccontare anch’io due episodi di cui sono stato testimone.
Un sabato mattina attendo in quel di Corsico (MI) nella panetteria vicino casa il mio turno quando entra una mamma che teneva per mano il suo figlioletto affetto dalla sindrome di Dawn; poco davanti a me c’era un’altra madre che anche lei teneva per mano un figlioletto il quale, vedendo il bambino appena entrato, gli va incontro con un bellissimo sorriso.
Sua madre, rossa in viso dalla collera, lo prese al volo e lo strattonò bruscamente verso di sé come se il bambino diversamente abile fosse un appestato.
Non lo era, io lo conoscevo perché nella mia veste di assessore ai Servizi sociali avevo fatto in modo che venissero dati dall’Amministrazione comunale in comodato dei locali per ospitare una associazione, il GUPIH (Genitori Uniti per l’Integrazione dei portatori di Handicap); mi avvicinai a lui e lo presi in braccio.
Era un bambino affettuosissimo, così come del resto tutti gli altri come lui.
Una mattina, diretto in centro a Milano salgo sul metro pieno zeppo; si apre tra i passeggeri uno spiraglio e mi accorsi che poco davanti a me c’era un uomo di colore seduto ed accanto a lui, in entrambi i lati, due posti vuoti.
Andai a sedermi, l’uomo mi sorrise che io ricambiai.
Era vestito meglio di tanti altri connazionali lì presenti e non emanava odori di sorta, forse solo quello, peraltro molto discreto, di un dopobarba.
E’ un fatto che i figli di “nuova generazione” si comportino come i padri e, quindi la catena si allunga a dismisura specie se sul diverso soffiano correnti politiche di stampo razzista.
Sintomatico il fatto che l'UNAR sia un Ufficio governativo sconosciuto ai più anche per la sua mancanza di solerzia non proprio assoluta ma quasi.
Figuriamoci oggi, visto in che mani è caduto il nostro Governo.
La ministra Carfagna è partita lancia in resta contro il mestiere più antico nel mondo, se fatto in strada, mentre non ha speso una parola sul pericolo del diffondersi del razzismo sotto varie forme non sempre cruente.
Con l’occasione vi riporto una recente sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee tratta proprio dal sito dell’UNAR.
Nonostante questa sentenza la discriminazione in punto alle assunzioni di lavoratori persiste.
Ed il caso citato da Bonini di colui che voleva fare in taxista ove lva messo ?
Nell’Italia di oggi è possibile anche questo; guai a toccare questa casta; Bersani ne sa qualcosa !
Discriminazione,
sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee
La direttiva 2000/43/CE mira a stabilire un quadro per la lotta alle discriminazioni fondate sulla razza o l'origine etnica, al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento.
La Corte di Giustizia delle Comunità europee, rammentando la finalità della suddetta direttiva, in una recente sentenza afferma che la dichiarazione resa da un datore di lavoro nell'ambito di una procedura di assunzione di non assumere dipendenti di una determinata origine etnica ("alloctoni") - in quanto la clientela non consente agli stessi l'accesso alla propria abitazione privata durante i lavori - possa configurare una discriminazione diretta, anche in mancanza di un denunciante identificabile che affermi di essere stato vittima di tale discriminazione.
La Corte, inoltre, nel pronunciarsi sulla questione relativa all'inversione dell'onere della prova, sostiene che incombe al datore di lavoro fornire la prova di non aver violato il principio della parità di trattamento.
Relativamente all'adeguatezza delle sanzioni in caso di una politica di assunzione discriminatoria, la Corte afferma, altresì, che esse possono consistere nella constatazione della discriminazione da parte del giudice competente accompagnata da un adeguato rilievo pubblicitario, ovvero nell'ingiunzione rivolta al datore di lavoro di porre fine alla pratica discriminatoria, o ancora nella concessione di un risarcimento dei danni in favore dell'organismo che ha avviato il procedimento.
29 luglio 2008
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