domenica, agosto 16, 2009

Racconto di Ferragosto - III^ parte

RACCONTO DI FERRAGOSTO

di

CURZIO MALTESE

IL SIGNOR B

TERZA ed ULTIMA PARTE

Vendette tutte le sue ville, alcune anzi le regalò ai poveri

(escort disoccupate , conduttori televisivi incapaci di adeguarsi al nuovo corso, la Lega).

Cedette ai cinque figli, in parti uguali, l’intero patrimonio e scrisse una lettera di scusa alla moglie Veronica, dicendo che le altre erano solo mignotte, e un’altra lettera di scuse alle mignotte, dicendo che l’altra era solo una moglie.

Si stabilì in un bilocale alla periferia di Milano, quartiere Gratosoglio, (confinante con Rozzano frazione Quinto Stampi – mia nota) facendo impazzire la security che per i primi mesi dovette perquisire e presidiare ogni giorno quaranta caseggiati popolari e accompagnarlo tutte le mattine a fare la spesa alla Conad.

Non mise più piede a Roma, né in Parlamento né a palazzo Chigi.

Governava da un tinello disadorno, senza televisione, con angolo di cottura, cucinandosi da solo pasta al sugo e poco altro.

Predicava la semplicità, ma non più in televisione, e nemmeno nelle fastose convention di una volta.

Lo faceva sul pianerottolo di casa, per pochi vicini, oppure nel cortile , verso sera, con tutto il condominio affacciato alle finestre.

Era profondamente cambiato.

I bulloni del lifting, non più serrati da mani abili, si erano rilasciati fino a fargli spiovere le guance e la pappagorgia, come a tutti i vecchi di questo mondo.

Aveva licenziato tutto il pletorico staff per la sua immagine, sostituendolo con Gino, il barbiere dell’angolo, che l’aveva rasato a zero per bonificare quella povera testa bitumata, e farla finalmente respirare.

Era diventato grasso, calvo, brutto e vecchio.

Era casto, non possedeva più niente se non un conto corrente postale con il necessario per mangiare e pagare la tintoria.

I nemici erano interdetti.

Molti vacillavano; un uomo così – scrisse Michele Serra sulla Repubblica – forse l’abbiamo giudicato male.

Forse non l’avevamo capito.

La Chiesa, incalzata dal suo esempio austero, portava con imbarazzo i suoi paramenti, i suoi fasti e le sue dorate vestigia.

Qualcuno, a voce sempre meno bassa, cominciava a perorare la sua santificazione.

I suoi elettori, con qualche fatica, abbandonavano pian piano i miti precedenti - il profitto, l’intrapresa, il condono fiscale e la fica – e cominciavano a seguirlo lungo le strade della virtù, della modestia, della legge:

“Un semaforo rosso è un semaforo rosso”

Disse il signor B in uno dei suoi celebri discorsi nel cortile del condominio, passati di bocca in bocca in tutto il Paese

“ e anche chi ruba dieci centesimi è come se rubasse un miliardo”.

Nei sondaggi tornò in poche settimane sopra il 50%.

Poi al 60, al 70, all’80%.

Nella tarda primavera del 2010 già sfiorava il 90% dei consensi.

Portava un caftano bianco, segno di amicizia con gli immigrati, sandali francescani, e girava liberamente per le strade di Milano senza bisogno di security, perché tutti lo amavano.

Si, infine aveva l’amore di tutti, scopo ultimo della sua stessa vita, e la politica – lui lo sapeva bene – era stata solo una parentesi di questo lungo viaggio verso l’adorazione incontrastata dell’umanità intera nei suoi confronti.

Era stato il primo tra i primi, poi il primo tra gli ultimi, prima miliardario, poi povero, poi qualunque altra cosa , non era quello che importava.

Importava di essere amato.

Come capita a tutti – si vive per essere amati – ma su scala mondiale, assoluta, infinita.

La scala di Dio, che è la stessa scala dei bambini.

Amato in purezza, amato per sempre, perfettamente amato, completamente amato.

Un giorno passava da piazza del Duomo.

Per non disturbarlo, avendone colto la lezione di modestia e misura, i milanesi, incrociandolo, lo salutavano affettuosamente ma sobriamente, senza dare l’idea della massa o della folla che il signor B aveva insegnato ad essere una dimensione illusoria.

Un segno del capo, un sorriso grato e via, ognuno per la sua strada.

Anche le telecamere avevano ordine di evitarlo: la vanità di apparire era il primo tra i vizi che egli stesso usava condannare.

Grasso e curvo, con la faccia molle e bonaria da vecchio lombardo , la pelata lucente coperta da un berretto giamaicano acquistato da un ambulante, al signor B era però rimasto, della vita precedente, lo sguardo.

Quello stesso sguardo attento, acuminato, che gli consentiva di riconoscere, anche in mezzo alla moltitudine, l’unica cosa che davvero gli interessava: il grado di affetto e di riconoscenza che la gente aveva per lui.

Lo vide a una cinquantina di metri di distanza, verso la Galleria, inconfondibile anche se in mezzo al caos di facce e voci di piazza Duomo.

Era lo stesso ragazzo che un anno prima , alla fine della prima Era del signor B, lo aveva guardato con indifferenza.

In un baleno, anzi nemmeno il tempo di un baleno, il signor B lo riconobbe e fece una zoomata verso quell’iride lontana per scoprire la verità.

Con uno sgomento indicibile, del tutto simile ad un presagio di morte, il signor B vide che lo sguardo di quel giovane era ancora dominato, come l’anno precedente, dall’indifferenza.

Anzi: all’indifferenza di primo grado, quella per il signor B ricchissimo e gaudente, si era sommata un’indifferenza di secondo grado, quella per il signor B virtuoso e casto.

“Tu reciti”

Gli disse a bocca chiusa, da distante, il giovane dallo sguardo indifferente .

“Recitavi prima, reciti anche adesso.

Non mi interessi.

Se proprio deve interessarmi una recita, allora quella è la mia.

Non la tua.

Perché io sono più importante di te”.

Il signor B chiamo gli uomini della security discretamente confusi nella folla, e lo fece arrestare.

°°°°°°°

Mia conclusione:

INGUARIBILE

FINE

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