domenica, novembre 16, 2008

La storia d'Italia s'intreccia anche con quella della P2 - parte III^

LA STORIA D’ITALIA SI INTRECCIA CON QUELLA DELLA
P2
Per poi continuare sino ai giorni nostri sia pure con fasi alterne.
dal racconto scritto nel
2001
da
GIANNI BARBACETTO
Parte terza
Verso il porto delle nebbie.
Tutte le carte sono portate a Milano.
Turone e Colombo le catalogano, personalmente, pagina per pagina.
Ne fanno due copie.
L’originale entra nel fascicolo dell’inchiesta; la prima copia è affidata ai finanzieri, con l’incarico di conservarla in un luogo sconosciuto agli stessi giudici; la seconda è nascosta, sotto una falsa intestazione («Formazioni comuniste combattenti») tra i fascicoli di un collega di cui i due si fidano, il giudice Pietro Forno.
Non si sa mai.Fuori dal palazzo di giustizia di Milano, intanto, nessuno sa delle carte sequestrate a Gelli.
Eppure qualcuno sta lavorando febbrilmente per parare il colpo.
La notizia comincia a trapelare.
La dà, per primo, il telegiornale Rai la sera del 20 marzo.
Ma non è chiaro quali documenti siano stati trovati dai giudici.
Il giorno dopo, sabato 21 marzo, il Giornale (allora diretto da Indro Montanelli) scrive:
«Nell’ambito delle indagini per l’affare Sindona, stasera si è appresa una doppia operazione compiuta dalla magistratura di Milano e da quella di Roma, nella villa aretina di Licio Gelli, Venerabile Maestro della loggia massonica P2.
Per conto dei giudici milanesi l’intervento sarebbe stato operato dalla Guardia di finanza, mentre Roma avrebbe partecipato agli accertamenti attraverso il sostituto procuratore della Repubblica Sica».
Strana notizia: il ritrovamento non è avvenuto a villa Wanda ma alla Giole di Castiglion Fibocchi; e soprattutto Domenico Sica, detto «Rubamazzo», per ora non c’entra nulla.
Ma basteranno poche settimane e Roma arriverà ad avverare la profezia del Giornale e a strappare l’indagine ai magistrati milanesi.
Turone e Colombo, consci del peso istituzionale della loro scoperta, decidono che è loro dovere informare il capo dello Stato: ma il presidente Sandro Pertini è all’estero, così ripiegano sul capo del governo, Arnaldo Forlani.
Si recano a Roma il 25 marzo, l’appuntamento è fissato alle ore 16 a Palazzo Madama.
Aspettano per due ore.
Poi la segreteria di Forlani comunica che c’è stato un equivoco, che il presidente li aspetta a Palazzo Chigi.
I due giudici si spostano lì.
Ad accoglierli è il capo di gabinetto di Forlani.
«Ci siamo guardati negli occhi in silenzio», ricorda Colombo, «il funzionario davanti a noi era il prefetto Mario Semprini, tessera P2 1637».
Forlani è cortese, chiede se le carte trovate possono essere non autentiche.
I due giudici gli mostrano una firma autografa del ministro della Giustizia
Adolfo Sarti sulla domanda d’iscrizione alla loggia.
Chiedono: «Signor presidente, avrà certamente un documento controfirmato dal suo ministro Guardasigilli...».
Forlani ne prende uno, confronta i due fogli, si convince.
«Datemi tempo di riflettere», conclude Forlani.
«Di solito offro agli ospiti di riguardo un aereo dei servizi per tornare a casa.
Mi pare che questa volta non sia il caso».
Forlani tira in lungo.
Non vuole prendersi la responsabilità di rendere pubblici gli elenchi.
Cerca di scaricarla sui giudici milanesi.
Sui giornali del 20 maggio i titoli confermano quella sensazione:
«Forlani: spetta ai giudici togliere il segreto sulla P2».
Turone, Colombo e il capo dell’ufficio Amati inviano immediatamente una lettera al presidente del Consiglio, in cui sostengono che sono coperti dal segreto istruttorio i verbali delle deposizioni dei testimoni che stanno sfilando davanti a loro, ma non
«il restante materiale trasmesso».
Forlani capisce che non può più aspettare.
Le liste di Gelli sono rese pubbliche.
Oltre agli elenchi degli affiliati e alla documentazione sulla loggia, tra le carte sequestrate vi sono 33 buste sigillate con intestazioni diverse:
«Accordo Eni-Petromin»,
«Calvi Roberto vertenza con Banca d’Italia»,
«Documentazione per la definizione del gruppo Rizzoli»,
«On. Claudio Martelli»...
C’erano già, in quelle carte, i segreti di Tangentopoli, del Conto Protezione e di tanto altro ancora.
Ma i tempi non erano maturi.
Da Roma si muovono il giudice istruttore Domenico Sica (detto «Rubamazzo») e il procuratore della Repubblica Achille Gallucci.
Sollevano il conflitto di competenza e la Cassazione, il 2 settembre 1981, strappa l’inchiesta a Milano per affidarla a Roma.
Non sviluppata, l’indagine si spegne.
«Mi è arrivata sulla scrivania già morta»,
dice Elisabetta Cesqui, il pubblico ministero che eredita l’indagine.
L’accusa di cospirazione politica contro le istituzioni della Repubblica mediante associazione cade: tutti i rinviati a giudizio (pochi: qualche capo dei 17 gruppi in cui la P2 era divisa, più Gelli e i responsabili dei servizi segreti) sono prosciolti, e comunque il processo arriva in Cassazione quando ormai è troppo tardi e per tutti scatta la prescrizione.Più utile il lavoro della Commissione parlamentare presieduta da Tina Anselmi, che dichiara le liste della P2, con 972 nomi,
«autentiche» e «attendibili», ma incomplete.
E con anni di lavoro produce un materiale immenso e prezioso, la documentazione di come funzionava una potentissima macchina di eversione e di potere.
Ma nel 1981 le speranze - o le paure - erano altre: una parte del Paese sperava che lo scandalo P2 avviasse il rinnovamento della vita politica e istituzionale; un’altra temeva che il proprio potere si incrinasse per sempre.
Sbagliavano gli uni e gli altri.
Tessera numero 1816.
Oggi il più noto degli iscritti alla P2 è Silvio Berlusconi, tessera numero 1816.
Per la P2 Berlusconi ha subito la sua prima condanna, ormai definitiva: per falsa testimonianza.
Nel 1990, a Venezia, viene infatti giudicato colpevole di aver giurato il falso davanti ai giudici, a proposito della sua iscrizione alla loggia.
L’anno prima, però, c’era stata una provvidenziale amnistia. Quando parla della P2, Berlusconi se la cava, di solito, con qualche battuta.
Eppure l’iscrizione alla loggia è stata determinante per i suoi primi affari immobiliari.
Per esempio per ottenere credito dalla Banca nazionale del lavoro (controllata dalla P2, con ben otto alti dirigenti affiliati) e dal Monte dei Paschi di Siena (era piduista il direttore generale Giovanni Cresti).
Conclude la Commissione Anselmi: gli imprenditori Silvio Berlusconi e Giovanni Fabbri (il re della carta)
«trovarono appoggi e finanziamenti al di là di ogni merito creditizio».
Ma poi, fatte le case, bisogna venderle.
E non fu facile, per Berlusconi.
Lo soccorse, agli inizi della sua carriera di immobiliarista, un «fratello» della loggia segreta, il napoletano Ferruccio De Lorenzo, già sottosegretario liberale in un governo Andreotti e padre di Francesco, futuro ministro della Sanità e imputato di Mani pulite: Ferruccio De Lorenzo acquistò, come presidente dell’Enpam (l’Ente nazionale previdenza e assistenza dei medici italiani) prima due hotel a Segrate, poi decine di appartamenti di Milano 2.
L’Enpam decise poi di affidare a Berlusconi anche la gestione del teatro Manzoni di Milano, controllato dall’ente.
Quando Gelli parla di Berlusconi, è lapidario:
«Ha preso il nostro Piano di rinascita e lo ha copiato quasi tutto»,
dichiara all’Indipendente nel febbraio 1996.
Il Piano di rinascita democratica era il programma politico della P2.
Fu sequestrato il 4 luglio 1981 all’aeroporto di Fiumicino, nel doppiofondo di una valigia di Maria Grazia Gelli, figlia del Venerabile.
Riletto oggi, risulta profetico.
Prevede, infatti, di
«usare gli strumenti finanziari per l’immediata nascita di due movimenti l’uno sulla sinistra e l’altro sulla destra».
Tali movimenti «dovrebbero essere fondati da altrettanti club promotori».
Nell’attesa, il Piano suggerisce che con circa 10 miliardi è possibile
«inserirsi nell’attuale sistema di tesseramento della Dc per acquistare il partito».
Con «un costo aggiuntivo dai 5 ai 10 miliardi» si potrebbe poi «provocare la scissione e la nascita di una libera confederazione sindacale».
Per quanto riguarda la stampa,
«occorrerà redigere un elenco di almeno due o tre elementi per ciascun quotidiano e periodico in modo tale che nessuno sappia dell’altro»;
«ai giornalisti acquisiti dovrà essere affidato il compito di simpatizzare per gli esponenti politici come sopra».
Poi bisognerà:
«acquisire alcuni settimanali di battaglia»,
«coordinare tutta la stampa provinciale e locale attraverso un’agenzia centralizzata», «coordinare molte tv via cavo con l’agenzia per la stampa locale», «dissolvere la Rai in nome della libertà d’antenna»;
«punto chiave è l’immediata costituzione della tv via cavo da impiantare a catena in modo da controllare la pubblica opinione media nel vivo del Paese».
Tecnologia a parte: preveggente, no?La giustizia va ricondotta
«alla sua tradizionale funzione di equilibrio della società e non già di eversione». Per questo, è necessaria la separazione delle carriere del pubblico ministero e dei giudici,
«l’istruzione pubblica dei processi nella dialettica fra pubblica accusa e difesa di fronte ai giudici giudicanti»,
la «riforma del Consiglio superiore della magistratura che deve essere responsabile verso il Parlamento».
Molto è già stato realizzato. Per il resto si vedrà.
(BARBACETTO, è bene rammentarlo, scrive questo lungo pezzo nel 2001)
Che fine hanno fatto gli altri «fratelli» di loggia?
Alcuni hanno fatto proprio una brutta fine.
Sindona, dopo essere stato condannato per l’omicidio di Giorgio Ambrosoli, è morto in carcere, per una tazzina di caffè al veleno.
Il suo successore nella finanza d’avventura, Roberto Calvi, tessera numero 1624, ha gettato la più grande banca italiana, il Banco Ambrosiano, nelle braccia della P2 che gli ha sottratto un fiume di miliardi e l’ha fatto finire in bancarotta; alla fine, il 18 giugno 1982, è stato trovato penzolante sotto il ponte dei Frati neri, a Londra.
Mino Pecorelli, tessera 1750, giornalista in contatto con i servizi segreti, direttore di Op e piduista anomalo che voleva giocare in proprio, è stato crivellato di colpi nella sua automobile, il 20 marzo 1979.
La loggia multinazionale.
Gelli è agli arresti domiciliari a villa Wanda, condannato per il crack del Banco Ambrosiano.
Molti degli affiliati, il nocciolo duro del club dell’oltranzismo atlantico, sono stati coinvolti in vicende di eversione, stragi, tentati colpi di Stato, depistaggi.
Così Vito Miceli, Gian Adelio Maletti, Antonio Labruna, Giuseppe Santovito, Giovanni Fanelli, Antonio Viezzer, Umberto Federico D’Amato, Giovanbattista Palumbo, Pietro Musumeci, Elio Cioppa, Manlio Del Gaudio, Giovanni Allavena, Giovanni Alliata di Montereale, Giulio Caradonna, Edgardo Sogno...
Ci vorrebbe almeno un libro per ciascuno, per raccontare la multiforme attività di questi fedeli servitori del Doppio Stato.
Organizzazione multinazionale, la P2 aveva affiliati che operavano in Sudamerica: Uruguay, Brasile e soprattutto Argentina.
In Argentina, dove Gelli aveva rapporti molto stretti con i servizi segreti, aveva arruolato nella loggia l’ammiraglio Emilio Massera, capo di Stato maggiore della Marina, Josè Lopez Rega, ministro del Benessere sociale di Juan Domingo Peron, Alberto Vignes, ministro degli Esteri, l’ammiraglio Carlos Alberto Corti e altri militari.
Pochi del club P2 sono stati messi davvero fuori gioco dallo scandalo che seguì la pubblicazione degli elenchi.
I magistrati (unica categoria che reagì con decisione) furono giudicati e sanzionati dal Consiglio superiore della magistratura.
Ma ciò non toglie che uno dei magistrati iscritti alla P2, Giuseppe Renato Croce, tessera numero 2071, ai tempi giudice per le indagini preliminari a Roma, con arzigogoli procedurali stia dando ragione a Marcello Dell’Utri in una delle tante contese giudiziarie che il braccio destro di Berlusconi ha aperte.
Molti dei piduisti sono stati messi da parte dagli anni e dall’età.
Ma chi resiste all’azione del ciclo biologico non se la cava poi tanto male.
segue

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