martedì, agosto 26, 2008

La nuova direttrice de L'Unità

CONCITA DE GREGORIO
è da ieri la nuova direttrice de
il quotidiano politico fondato il 12 febbraio 1924
da
ANTONIO GRAMSCI
eroe della Libertà, vittima della dittatura fascista

Concita De Gregorio, nata nel 1965, e' stata una inviata del quotidiano la Repubblica con specifiche competenze in materia politica e di fatti di cronaca.
Laureata all'Universita' di Pisa in Scienze Politiche, ha iniziato la professione nelle radio e tv locali toscane passando poi al quotidiano Tirreno dove, per otto anni, ha lavorato nelle redazioni di Livorno, Lucca e Pistoia.
Nel 1990 passa al quotidiano la Repubblica.
Nel 2002 ha pubblicato un celebre reportage dal titolo
"Non lavate questo sangue",
diario dei giorni del G8 a Genova nonchè un racconto per la rivista letteraria di Adelphi.
Nel 2006 pubblica il libro
“Una madre lo sa”
finalista al Premio Bancarella 2007
Da ieri è il nuovo direttore del quotidiano
L’Unità
Una svolta coraggiosa operata dal nuovo editore del giornale, Renato Soru – attuale governatore della Sardegna -,sulla quale non tutti saranno d’accordo.
Ho parlato di svolta coraggiosa ma, almeno per me e per tanti che la pensano come me, opportuna in quanto il popolo democratico ha da tempo fatto intendere come fosse oramai una necessità ineludibile il vedere volti nuovi sia in politica che in coloro che di politica scrivono giornalmente sulla carta stampata e non solo.
Menti fresche, senza pregiudizi ma con principi morali incorruttibili profondamente radicati in tutte le persone per convinzione di sinistra, che, facendo tesoro delle passate esperienze, sappiano pazientemente tracciare la linea futura per le nuove emergenti generazioni e contemporaneamente sollevare le condizioni sociali dei più deboli.
AUGURI
di
BUON LAVORO
Qui di seguito troverete il suo primo editoriale, un suo biglietto da visita prezioso; con un colpo di penna scrive tante cose che avevamo bisogno di leggere, tanto più che provengono da una giovane, che ha la stessa età del mio primo figlio.

Il nostro posto
di
Concita De Gregorio
Sono cresciuta in un Paese fantastico di cui mi hanno insegnato ad essere fiera. Sono stata bambina in un tempo in cui alzarsi a cedere il posto in autobus a una persona anziana, ascoltare prima di parlare, chiedere scusa, permesso, dire ho sbagliato erano principi normali e condivisi di una educazione comune.

Sono stata ragazza su banchi di scuola di città di provincia dove gli insegnanti ci invitavano a casa loro, il pomeriggio, a rileggere ad alta voce i testi dei nostri padri per capirne meglio e più piano la lezione.

Sono andata all’estero a studiare ancora, ho visto gli occhi sbigottiti di coloro a cui dicevo che se hai bisogno di ingessare una frattura, nei nostri ospedali, che tu sia il Rettore dell’Università o il bidello della Facoltà fa lo stesso, la cura è dovuta e l’assistenza identica per tutti.

Sono stata una giovane donna che ha avuto accesso al lavoro in virtù di quel che aveva imparato a fare e di quel che poteva dare: mai, nemmeno per un istante, ho pensato che a parità di condizioni la sorte sarebbe stata diversa se fossi stata uomo, fervente cattolica, ebrea o musulmana, nata a Bisceglie o a Brescia, se mi fossi sposata in chiesa o no, se avessi deciso di vivere con un uomo con una donna o con nessuno.
Ho saputo senza ombra di dubbio che essere di destra o di sinistra sono cose profondamente diverse, radicalmente diverse: per troppe ragioni da elencare qui ma per una fondamentale, quella che la nostra Costituzione – una Costituzione antifascista - spiega all’articolo 2, proprio all’inizio: l’esistenza (e il rispetto, e il valore, e l’amore) del prossimo.

Il “dovere inderogabile di solidarietà” che non è concessione né compassione: è il fondamento della convivenza.

Non erano mille anni fa, erano pochi.

I miei genitori sapevano che il mio futuro sarebbe stato migliore del loro.

Hanno investito su questo – investito in educazione e in conoscenza – ed è stato così.

È stato facile, relativamente facile. È stato giusto.

Per i nostri figli il futuro sarà peggiore del nostro. Lo è.

Precario, più povero, opaco.
Chi può li manda altrove, li finanzia per l’espatrio, insegna loro a “farsi furbi”. Chi non può soccombe.

È un disastro collettivo, la più grande tragedia: stiamo perdendo la fiducia, la voglia di combattere, la speranza.

Qualcosa di terribile è accaduto negli ultimi vent’anni.

Un modello culturale, etico, morale si è corrotto.

La politica non è che lo specchio di un mutamento antropologico, i modelli oggi vincenti ne sono stati il volano: ci hanno mostrato che se violi la legge basta avere i soldi per pagare, se hai belle le gambe puoi sposare un miliardario e fare shopping con la sua carta di credito.

Spingi, salta la fila, corrompi, cambia opinione secondo la convenienza, mettiti al soldo di chi ti darà una paghetta magari nella forma di una bella presidenza di ente pubblico, di un ministero.

Mettiti in salvo tu da solo e per te: gli altri si arrangino, se ne vadano, tornino a casa loro, crepino.
Ciò che si è insinuato nelle coscienze, nel profondo del Paese, nel comune sentire è un problema più profondo della rappresentanza politica che ha trovato. Quello che ora chiamiamo “berlusconismo” ne è stato il concime e ne è il frutto. Un uomo con un potere immenso che ha promosso e salvato se stesso dalle conseguenze che qualunque altro comune cittadino avrebbe patito nelle medesime condizioni - lo ha fatto col denaro, con le tv che piegano il consenso - e che ha intanto negli anni forgiato e avvilito il comune sentire all’accettazione di questa vergogna come fosse “normale”, anzi auspicabile: un modello vincente.

È un tempo cupo quello in cui otto bambine su dieci, in quinta elementare, sperano di fare le veline così poi da grandi trovano un ricco che le sposi.

È un tempo triste quello in cui chi è andato solo pochi mesi fa a votare alle primarie del Partito Democratico ha già rinunciato alla speranza, sepolta da incomprensibili diaspore e rancori privati di uomini pubblici.

Non è irrimediabile, però.

È venuto il momento di restituire ciò che ci è stato dato.

Prima di tutto la mia generazione, che è stata l’ultima di un tempo che aveva un futuro e la prima di quello che non ne ha più.

Torniamo a casa, torniamo a scuola, torniamo in battaglia: coltivare i pomodori dietro casa non è una buona idea, metterci la musica in cuffia è un esilio in patria.

Lamentarsi che “tanto, ormai” è un inganno e un rifugio, una resa che pagheranno i bambini di dieci anni, regalargli per Natale la playstation non è l’alternativa a una speranza.

“Istruitevi perché abbiamo bisogno di tutta la vostra intelligenza”, diceva l’uomo che ha fondato questo giornale.

Leggete, pensate, imparate, capite e la vita sarà vostra.

Nelle vostre mani il destino. Sarete voi la giustizia. Ricominciamo da qui. Prendiamo in mano il testimone dei padri e portiamolo, navigando nella complessità di questo tempo, nelle mani dei figli.

Nulla avrà senso se non potremo dirci di averci provato.

Questo solo posso fare, io stessa, mentre ricevo da chi è venuto prima di me il compito e la responsabilità di portare avanti un grande lavoro collettivo. L’Unità è un pezzo della storia di questo Paese in cui tutti e ciascuno, in tempi anche durissimi, hanno speso la loro forza e la loro intelligenza a tenere ferma la barra del timone.

Ricevo in eredità - da ultimo da Furio Colombo ed Antonio Padellaro – il senso di un impegno e di un’impresa.

Quando immagino quale potrebbe essere il prossimo pezzo di strada, in coerenza con la memoria e in sintonia con l’avvenire, penso a un giornale capace di parlare a tutti noi, a tutti voi di quel che anima le nostre vite, i nostri giorni: la scuola, l’università, la ricerca che genera sapere, l’impresa che genera lavoro.

Il lavoro, il diritto ad averlo e a non morirne.

La cura dell’ambiente e del mondo in cui viviamo, il modo in cui decidiamo di procurarci l’acqua e la luce nelle nostre case, le politiche capaci di farlo, il governo del territorio, le città e i paesi, lo sguardo oltreconfine sull’Europa e sul mondo, la solidarietà che vuol dire pensare a chi è venuto prima e a chi verrà dopo, a chi è arrivato da noi adesso e viene da un mondo più misero e peggiore, solidarietà fra generazioni, fra genti, fra uguali ma diversi.

La garanzia della salute, del reddito, della prospettiva di una vita migliore. Credo che per raccontare la politica serva la cronaca e che la cronaca della nostra vita sia politica.

Credo che abbiamo avuto a sufficienza retroscena per aver voglia di tornare a raccontare, meglio e più onestamente possibile, la scena.

Credo che la sinistra, tutta la sinistra dal centro al lato estremo, abbia bisogno di ritrovarsi sulle cose, di trovare e di dare un senso al suo progetto.

Il senso, ecco. Ritrovare il senso di una direzione comune fondata su principi condivisi: la laicità, i diritti, le libertà, la sicurezza, la condivisione nel dialogo. Fondata sulle cose, sulla vita, sulla realtà.

C’è già tutto quello che serve. Basterebbe rinominarlo, metterlo insieme, capirsi. Aprire e non chiudere, ascoltarsi e non voltarsi di spalle.

È un lavoro enorme, naturalmente. Ma possiamo farlo, dobbiamo.

Questo giornale è il posto. Indicare sentieri e non solo autostrade, altri modi, altri mondi possibili.

Ci vorrà tempo.

Cominciamo oggi un lavoro che fra qualche settimana porterà nelle vostre case un quotidiano nuovo anche nella forma.

Sarà un giornale diverso ma sarà sempre se stesso come capita, con gli anni, a ciascuno di noi.

L’identità, è questo il tema. L’identità del giornale sarà nelle sue inchieste, nelle sue scelte, nel lavoro di ricerca e di approfondimento che - senza sconti per nessuno - sappia spiegare cosa sta diventando questo paese; nelle voci autorevoli che ci suggeriscano dove altro sia possibile andare, invece, e come farlo.

Sarà certo, lo vorrei, un giornale normale niente affatto nel senso dispregiativo, e per me incomprensibile, che molti danno a questo attributo: sarà un normale giornale di militanza, di battaglia, di opposizione a tutto quel che non ci piace e non ci serve.

Aperto a chi ha da dire, a tutti quelli che non hanno sinora avuto posto per dire accanto a quelli che vorranno continuare ad esercitare qui la loro passione, il loro impegno.

Non è qualcosa, come chiunque capisce, che si possa fare in solitudine.

C’è bisogno di voi. Di tutti, uno per uno.

Non ci si può tirare indietro adesso, non si deve. È questa la nostra storia, questo è il nostro posto.
Pubblicato il 26.08.08

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